a cura di Giovanni De Donno e Benedetta Paladini
Recentemente il Tribunale di Catania, Sezione II, con ordinanza del 27 giugno 2017, ha ritenuto legittima la risoluzione del rapporto lavorativo intimata a mezzo “WhatsApp”, ricorrendone la sussistenza della forma scritta, nonché la validità di tale comunicazione.
V’è da premettere che, l’avvento delle nuove tecnologie determina un quotidiano confronto con nuove realtà, alle quali, dal punto di vista legale, è necessario apprestare la debita regolamentazione normativa o, in ogni caso, plasmare le fattispecie già esistenti, in un’ottica di garanzia e tutela dei rapporti giuridici.
Ma ritornando al caso preso in esame, occorre analizzare i motivi per i quali la recente giurisprudenza ha ritenuto legittimo un licenziamento intimato utilizzando il social “WhatsApp” quale modalità di comunicazione.
Le prime pronunce in merito risalgono, appunto, alla scorsa estate.
A ben vedere, sia i Giudici catanesi e, prima ancora il Tribunale di Genova e la Corte d’Appello di Firenze, paiono unanimi nel ritenere che un licenziamento intimato via WhatsApp sarebbe pienamente idoneo ad assolvere l’onere della forma scritta (art. 2, L. n. 604/1966), requisito senza il quale il datore di lavoro verrebbe sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente. Ciò, in quanto, tale modalità di comunicazione di recesso non è atro che un documento informatico dattiloscritto, imputabile a parte datoriale.
In particolar modo, il Tribunale di Catania, richiamandosi alla precedente pronuncia fiorentina, ha sostenuto che vige l’esonero “per il datore di lavoro l’onere di adoperare formule sacramentali, potendo, la volontà di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara”. Sul punto, tra le tante, si veda anche la costante giurisprudenza della Suprema Corte, Sezione Lavoro, n. 17652/2007 e n. 6447/2009.
Fermo restando l’apprezzabile approccio pratico della Magistratura in merito, le statuizioni sopra menzionate si riferiscono, comunque, a casi in cui il “messaggio” di licenziamento sia giunto a conoscenza del destinatario.
Preme ribadire, anche se noto, che ai sensi dell’art. 1334 del Codice Civile, il licenziamento è un atto unilaterale recettizio, che produce i propri effetti nel momento in cui perviene all’”indirizzo del destinatario” e, quindi, a conoscenza del soggetto. Ne consegue che la comunicazione del recesso non esula dall’applicazione della disposizione di cui sopra e, in particolar modo, dalla presunzione ai sensi dell’art. 1335 c.c., non rilevando, ormai, eventuali differenze circa la residenza anagrafica, ovvero il domicilio, dimora o luogo di normale frequenza da parte del dipendente. Difatti, è possibile intendere per “indirizzo” ogni luogo che, poiché inserito nella sfera di dominio o di controllo del ricevente, sembri congruo a consentire allo stesso la ricezione dell’atto e la cognizione del suo contenuto.
Ma ciò che a chi scrive sorge spontaneo chiedersi è: vige un obbligo giuridico per il lavoratore di ricevere, pertanto conoscere, il testo di un “messaggio” (sms) o di un “messaggio WhatsApp”?
A nostro parere la risposta appare ardua, poiché è prerogativa di ognuno di noi valutare arbitrariamente di non utilizzare i diversi social ormai presenti e/o spegnere il proprio telefono cellulare, soprattutto fuori dall’orario lavorativo (si pensi, ad esempio al cd. “diritto alla disconnessione” francese). Inoltre, seppur laddove si intendesse considerare che tale obbligo derivi a carico dei lavoratori da principi di correttezza e buona fede, fondanti il rapporto di lavoro, una comunicazione intimante il licenziamento, e ad esempio recante una motivazione da parte del datore come quella relativa al caso presso il Tribunale di Genova, “Non faccio più aperitivi, buona fortuna”, lascia fortemente perplessi.
I casi indicati e le relative sentenze, oltre ad esaltare la tecnologia, avvalorando l’importanza che ormai riveste, relegano fortemente tanto il luogo ove il destinatario prende coscienza della comunicazione inviata, quanto la modalità che può essere utilizzata dal mittente, dovendosi, pertanto, ritenersi efficace anche il licenziamento intimato a mezzo social.
Posto ciò, a parere dello scrivente appare comunque eccessivo, nella civiltà attuale, se non addirittura rischioso, attribuire rilevanza giuridica ad atti di così fondamentale importanza, non recanti, tra l’altro, la sottoscrizione del mittente.
Ciò, in quanto sarebbe opportuno valutare attentamente le nostre azioni prima di porle in essere, in particolar modo se le stesse hanno dei risvolti “social” (per evitare anche il rischio che, una volta immesse in rete, informazioni e comunicazioni possano essere soggette a manipolazioni, alterazioni, o altro) e, inoltre, non sono da sottovalutare le conseguenze che si potrebbero generare sul piano della “reputazione”.
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